martedì 30 marzo 2010

Quella è la porta

Una sgobba tutta la vita, 365 giorni l’anno, 12-15 ore al giorno, per uno stipendio da fame e chiaramente in nero. Poi arrivano le rumene che fanno le badanti, e allora cambi mercato e passi al babysitting (pochissime mamme affidano i figli a delle straniere), lavori 6 giorni anziché 7, ma lo stipendio cala vistosamente. Poi però arriva la crisi, e le mamme si affidano a nonne e asili. Così, a 55 anni, ti ritrovi senza lavoro. Da agosto 2009. Mandi curriculum ovunque e a chiunque e ti rendi disponibile a qualsiasi lavoro per qualunque paga e accetti ogni condizione. Eppure, sei fuori mercato.

Non posso nemmeno pretendere che mia madre in tutto questo riesca a mantenere un certo equilibrio mentale, per forza di cose si è rotto qualcosa. In 8 mesi abbiamo dilapidato praticamente tutto quello che avevamo risparmiato in passato, e a conti fatti ha i risparmi necessari a pagare altri 3 mesi di affitto. Poi, l’oblio.

Mi sono cavata gli occhi dalle orbite per trovarle un lavoro sui siti internet, ma ad ogni annuncio c’erano mediamente 30-40 candidature. I giovani hanno la precedenza, e lei sempre in fondo.

La domanda per avere un alloggio a canone agevolato al comune è stata fatta decenni fa, rinnovata ogni anno e ogni anno gli stranieri con le loro vagonate di figli hanno la precedenza. Per carità, i bimbi devono avere un tetto sulla testa. MA quando ero bimba io, la casa ci è stata ugualmente negata. E adesso ho 26 anni, un mutuo, una casa da tirare su e arredare, una vita da costruire e anche qualche sogno nel quale vorrei investire. Ora come ora riesco a pagarle metà affitto, metà spese condominiali e una spesa al supermercato al mese (vivo ancora con lei in attesa che la casa sia finita).

Credo che questo sia il ritratto della situazione economica di buona parte degli italiani, e mi va anche di lusso, dato che io e Davide almeno lavoriamo e lo stipendio è certo. Mio padre non è messo meglio di mia madre, anzi (i miei non sono mai stati sposati, ognuno ha la sua vita).

Quale futuro per noi? Sono preoccupata, e molto. Adesso volevo far andare mia madre a Torino per qualche settimana, da una zia alla quale è molto legata, e ci troviamo a fare i conti con i costi dei biglietti dei treni e del taxi per capire se, andando là ospite, la spesa del viaggio è superiore a quello che spenderebbe se restasse qua dovendosi mantenere. E’ molto umiliante per lei, e me ne rendo conto. Sta pagando gli errori del passato, ma mi chiedo se gli interessi giungeranno mai al termine, o se il suo debito è destinato a perdurare ancora per molto. Intanto navighiamo a vista, attendendo una telefonata, una proposta, anche solo 400 euro al mese ci consentirebbero di superare l’estate con l’affitto. Ma la barca sta incamerando acqua, e noi non sappiamo nuotare.

martedì 23 marzo 2010

Piani

Il fatto che sul mio diploma, accanto a ragioniera, ci sia scritto anche programmatore è un caso come il Chievo in serie A (questa è di J.Ax). Non so una beneamata sega di informatica, questo mi penalizza? Sì. Mi ferma? Manco a parlarne. Allora, io e la mia friend Jessica abbiamo un piano. Il piano è il seguente: diventiamo ricche e famose grazie al nostro talento, poi salviamo il mondo. Bene, mi pare che il piano non faccia una piega. Ora serve un piano per far funzionare il piano: come diventiamo ricche e famose grazie al nostro talento?

Partiamo dal talento: io e lei scriviamo romanzi. Che talento del cazzo, direte voi! In effetti diventare ricche e famose con la scrittura è cosa pressoché impossibile. Però io e lei abbiamo un qualcosa in più: la passione, quasi ossessiva, per quello che facciamo. Aggiungete anche che abbiamo qualcosa da dire attraverso le nostre storie, e otterrete una determinazione fuori dal comune. Me la tiro? No, non ho detto che sono la più grande scrittrice di tutti i tempi, dico solo che se mi ci metto posso farcela perché le basi (passione, ossessione, qualcosa da dire) ci sono. Idem per Jessica.

Come abbiamo intenzione di procedere? Abbiamo già scartato varie ipotesi, tra le quali l’impacchettare i manoscritti e inviarli alle C.E.

Stiamo riflettendo un po’ sul ruolo dell’agente letterario, ma tante, troppe, fonti ci dicono che anche qui il tranello è dietro l’angolo: se chiedono soldi per leggere, difficilmente ci rappresenteranno. Sono lieta (si fa per dire) di annunciarvi che praticamente non esistono agenzie letterarie che non chiedono soldi per valutare testi. Chi ne chiede 100, chi 400 e chi 600 (che mi sembrano proprio tanti!), ma tutti vogliono vedere gli eurini prima del file del romanzo. Indi: strada difficilmente percorribile senza incappare nell’inculata (scusate il francesismo).

Allora io e Jessica abbiamo optato per la seguente tripletta di soluzioni da seguire in contemporanea:

1 – mandare i romanzi a Writer’s dream che seleziona gratuitamente (!!!) i testi per una casa editrice di e-book;

2 – rivolgersi a Vibrisse, anche loro selezionano gratuitamente (!!!) testi per e-book e ricercano case editrice per i testi prescelti;

3 – ci apriamo un sito internet dove mettiamo i nostri lavori (sotto licenza) a disposizione dei lettori (gratis).

Per i primi due punti non ci sono problemi, ce la caviamo. Per il terzo siamo due mezze frane, ma anche lì risolveremo qualcosa. Pensavo a un blog, ma è restrittivo, vorrei qualcosa di più...di più.

Questo è il piano per far funzionare il piano. A quel punto mi darò da fare (più di adesso...non è che finora sono stata proprio con le mani in mano) per cambiare questo mondo di merda.

mercoledì 17 marzo 2010

Libri maturi.

Ho scritto due romanzi e ne sto scrivendo un terzo: sono tutti di generi differenti. Diciamo che se i primi due potevano essere quantomeno simili (fantasy il primo, urban fantasy il secondo), il terzo non c’entra una cippa lippa con i precedenti (non c’è nulla di fantastico). Mi chiedo: può questo essere un sintomo d’immaturità? Forse lo scrittore maturo, quello pronto, è anche quello che ha un suo genere e che lo sente suo con una certa esclusività. Ci sto pensando da qualche giorno (da quando GL ha iniziato a pubblicare i post sulla sua esperienza editoriale), e non ho ancora trovato una risposta. Anche il pubblico dei lettori è diverso da libro a libro: il primo è per l’infanzia, il secondo per ragazzi (giovani adulti) il terzo ancora non lo so (potrebbe non avere un pubblico target, lo scoprirò alla fine. Perché io scrivo storie, non storie per).
Quindi io non ho un “genere” di riferimento. Al massimo ho qualcosa da dire, e uso una storia per comunicarla, una storia della quale devo innamorarmi all’istante.
Ma d’altra parte, quando questi personaggi sfondano la porta del mio cervello, posso io invitarli a uscire adducendo strane scuse relative alla necessità di impacchettare una storia di “genere”? Potrei anche provare, in effetti. Potrei ignorarli nella speranza che se ne vadano dalla mia testa. Ma perché farmi della violenza?
Eppure, mi chiedo anche: perché le mie idee sono così diverse l’una dall’altra? Perché non hanno una linea comune? Forse non sono pronta. O forse non serve appartenere ad un “genere” per essere scrittori. Chissà.

Ps
piccola soddisfazione che vi posto qua

venerdì 12 marzo 2010

Inediti? No comment.

Io non sono nessuno in ambito letterario/editoriale, ciò nonostante ci “bazzico” un po’. Rispetto all’ultima volta che mi misi a cercare un editore (circa tre anni fa, forse un po’ di più) le cose si sono ulteriormente complicate, a mio parere. Però, forse, questa percezione è data anche da una maggiore consapevolezza. Ad esempio adesso non me lo sogno nemmeno di prendere il mio bel malloppone di 110.000 parole e spedirlo alle medie e grandi case editrici, perché è una perdita di tempo e di denaro. Ne sono e ne resto convinta, nonostante in qua e là qualche anonimo addetto ai lavori assicuri che nella loro casa editrice “tutti i manoscritti vengono visionati, uno per uno!!”. Io non ci credo, e non ci credo perché ritengo davvero improbabile l’eventualità di aver contattato TUTTE le case editrici (non a pagametno, s’intende) fuorché la loro. E come so che non leggono inediti? Beh, glielo chiedo. Alzo la cornetta e mando mail (di solito faccio entrambe le cose, così, per star sicura) chiedendo SE accettano inediti in lettura. Fino a tre anni fa la risposta era che no, l’enorme quantità di manoscritti pervenuti in redazione non consentiva l’accettazione di nuovi lavori. Oppure mi informavano che il loro catalogo era già straripante di novità fino alla venuta dei Cavalieri dell’Apocalisse. Oppure che proprio per loro politica non accettavano inediti (Feltrinelli, ad esempio).
Ora queste stesse case editrici non hanno nemmeno più il tempo di rispondere a una domanda di due righe, e tacciono. Una, solo una, mi ha mandato una mail vuota, con allegato un documento word di una riga e mezzo nella quale si dice che non hanno modo di prendere in esame nuovi scritti. Firmato: editore Marsilio. Fino a tre anni fa era una persona fisica che mi rispondeva, e si firmava magari Sara, o Marco, o Fabrizio. Adesso no, Editore Marsilio. Anche per dire che non si accettano inediti usano una e riga e mezzo di roba preconfezionata. Questo mi fa capire quanto sti poveretti siano sommersi di manoscritti. Non hanno nemmeno il tempo di digitare sulla tastiera le dieci parole sufficienti a dirmi no. Almeno prima avevo l’impressione di aver a che fare con esseri umani, adesso ho a che fare con “firmato: Editore Marsilio”. Io ci credo quando mi dicono che non hanno materialmente il tempo e il personale da dedicare alla pesca a sorpresa dei manoscritti, ci credo fermamente. E quindi? Che si fa?
Lo stare con gli animali, soprattutto cani, mi ha insegnato tante cose, una di queste è che quando un metodo non funziona è molto stupido accanirsi con quello. Pensiero lato: bisogna cambiare strategia. Se il cane non riconosce il comando “seduto”, allora devi cambiare due cose: il metodo (non impara con le pacchette sul sedere? Allora le pacchette sul sedere sono inutili) e il comando (non riconosce il seduto? Allora quel comando non va bene). Soluzione: sussurragli all’orecchio la parola “giù” ogni volta che il cane è seduto casualmente, premiarlo con un biscotto e il gioco in breve tempo è fatto.
Cosa mi rivela questo? Che contattare personalmente le case editrici non porta a una cippa lippa.
“Ma Licia Troisi ha spedito la trilogia a Mondatori e Sandrone Dazieri l’ha incoronata regina del fantasy italino!!”
Certo. Erano altri tempi, però. E lei ha avuto anche un pochetto di culo. Voi siete persone che hanno culo? Io no, perciò non ci conto troppo.
Soluzioni?
Concorsi letterari e internet. I primi sono tanti, ma quelli dedicati ai romanzi sono pochi e quelli che davvero offrono uno spiraglio sono ancora meno. Eppure bisogna insistere.
Internet: oh, qua casca l’asino. Leggo sul blog di Lara Manni che esistono licenze che tutelano il proprio lavoro anche se pubblicato su internet, e anche Gianrico ne aveva parlato sul suo blog. Credo sia una buona strada.
Quella della piccola casa editrice che pubblica gratis la sto già provando con il primo romanzo, adesso voglio sperimentare nuovi sentieri. Male che vada mi perdo e torno indietro, ma sono abbastanza convinta di non cadere in un precipizio. Esiste anche la possibilità di scoprire nuovi panorami godibili solo attraverso questi nuovi sentieri, no? Allora, a giugno, quando scadranno i concorsi (ben 2...) cui ho spedito il romanzo e sarò quindi libera di fare col testo quello che mi pare, penso che lo metterò in rete, ovviamente gratis (ciò non toglie che chi desidera potrà fare una donazione alla ONLUS Gli amici di Gattone o Le Muse). Perché scrivere vuol dire soprattutto comunicare, e non necessariamente pubblicare. Tutto sommato, se si trova il modo di comunicare anche senza pubblicare, non c’è niente di male. Ovviamente, bisogna avere qualcosa da dire. Ma questa è un’altra storia.

lunedì 8 marzo 2010

La forza di chi è considerato debole

Sensibilità. Ogni volta che racconto a qualcuno quello che faccio per gli animali, I progetti futuri in quest'ambito, le sconvolgenti verità che nessuno conosce sul campo, salta sempre fuori questa parola: sensibilità.
"Siete più sensibili, voi donne."
Sarà anche vero, e allora? Io sono sensibile e tu sei insensibile e indifferente, chi dei due ha qualche problema?
Piangiamo di più? Può essere, ma prima dopo e durante il pianto tante di noi fanno qualcosa per impedire ad altri di piangere. La sensibilità ci rende più forti, al contrario di quel che tutti credono. Perchè è la sensibilità a spingerci ad agire. L'indifferenza, quella che fa dell'uomo un "macho", spinge solo a condurre la propria vita sterile, e non c'è niente di più inutile. Se sei insensibile eviterai di aiutare gli altri, perchè non te ne fregherà niente. Se sei insensibile non lotterai mai per cambiare quello che non va, perchè ti è indifferente. Se sei insensibile ti crederai forte, e invece sarai un codardo, perchè nessuna battaglia ti interesserà veramente, e quindi dove sta la tua forza? Nel non combattere?
Non siamo deboli, noi donne. Non dobbiamo essere difese nè salvate nè salvaguardate più degli uomini. Siamo persone, e i diritti delle persone sono uguali per tutti, non ce ne sono di speciali per le donne. E' per questi diritti che ci battiamo, e il fatto in certe società ce ne siano di meno o che non ce ne siano proprio per le donne non fa di noi delle creature deboli e indifese. Non serve fare il soldato per essere più forte. La forza è un'altra cosa, e non ci manca di certo.
La festa della donna non ci deve ricordare certo che siamo migliori (non è così, non necessariamente), nè a ricordare all'uomo che siamo dei fiorellini candidi. Serve per ricordare a tutti, uomini e donne, che da qualche parte ci sono ancora società nelle quali la parità dei sessi è un'utopia. Parità: non siamo nè meglio nè peggio. La nostra forza si esprime diversamente da quella dell'uomo: questo non fa di noi delle vittime, fa di noi delle creature che lottano per scopi a volte uguali a quelli degli uomini e a volte no, ma spesso con mezzi diversi. Spesso, non sempre. Perchè non siamo speciali. Si parla di grandi numeri, ovviamente. Ci sono donne orribili e uomini straordinari. In generale è vero che la donna è più sensibile, e io lo vedo dal database sempre aggiornato dei volontari italiani: 98% donne. Donne come me (senza modestia, ecchecazzo!) che si macinano km su km da sole, a volte di sera, a volte durante proibitive giornate invernali o festive, per far attraversare la penisola a dei cuccioli e salvare loro la vita. Che si alzano presto tutti i sabati e tutte le domeniche (dopo un'intera settimana di lavoro lontano da casa) per andare al canile e fare la propria parte anche quando nevica, quando fa freddo, quando è festa, quando si è stanchi da morire. Che passano il tempo libero (poco) (e che poi libero non è) a scrivere, divulgare, condividere, leggere e approfondire appelli che straziano il cuore. Che raccolgono brandelli (letteralmente) di animali investiti dalla strada. Che mettono mano anche al portafoglio (perchè sul cuore siamo tutti capaci) per salvare qualche creatura. Che trascurano la propria vita (e quella di chi si ama) per aiutare i figli di un Dio minore.
Tutto questo senza mai scordarsi di chi è debole e solo e indifeso ma che non ha la coda e non ha la pelliccia, ma che ha due gambe e appartiene alla categoria degli esseri umani. Tutto questo senza risparmiarsi anche per quelli della propria specie. Tutto questa senza mai smettere di essere anche donne, mamme, mogli, professioniste, casalinghe. Senza comunque smettere di vivere: perchè non ci basta esistere, noi vogliamo anche vivere.
Questa è forza. Siamo forti. Molto forti. Forti da far paura.

lunedì 1 marzo 2010

Maestra pancreatite

L'ho conosciuta nel 2006, e quella notte ho conosciuto di conseguenza il vero dolore fisico. Certo, ci sono miliardi di cose molto dolorose, ce ne sono una discreta quantità di più dolorose, ma non sono poi così tante e soprattutto sono abbastanza inusuali. La pancreatite, per intenderci, è molto più dolorosa di una qualunque colica renale e molto probabilmente è riconducibile ai dolori di un parto naturale, ma non porta con sè nè la consolazione di una buona causa nè la speranza di un futuro ricco di soddisfazioni derivanti dal nascituro. E' un dolore fine a sè stesso, profondo, che circonda il busto e sembra stritolarti in una morsa abbastanza potente da toglierti il respiro ma non abbastanza insistente da spaccarti il corpo a metà. E', soprattutto, un dolore bastardo. Bastardo perchè bussa alla porta di giorno, ti tedia ma con discrezione, come un tarlo, ma è abbastanza sopportabile da non allarmarti. Così vai a lavorare, lamentandoti del mal di schiena come una pensionata al supermercato, poi esci con la cugina, e vai all'ipercoop accennandole a quel fastidio all'altezza dei reni e del fianco destro, ma non ti preoccupi. La sera sei sola, perchè la mamma fa la notte e sai che il fidanzato ha la partita di calcetto. Però il mal di schiena comincia a essere un po' troppo fastidioso e quindi, in un'incredibile slancio di prudenza, telefoni a Davide prima che vada al campo di calcio e ti fai portare un tubetto di Voltaren. Il fidanzato, premuroso ma rassicurato dalla tua autodiagnosi (colpo della strega) ti spalma con amore il Voltaren, promette di lasciare il cell acceso durante la partita e poi va a giocare. Ed è mezz'ora dopo, che il dolore bastardo ti assale. Su quel divano, che è sempre stato uno scomodo portatore sano di cervicale, ora non resisti più. Muovendoti come un reduce da capottamento in automobile, ti alzi e vai a letto, dove di certo starai più comoda. Dove di certo il dolore si affievolirà. Ed effettivamente riesci addirittura ad appisolarti. Ma questo perchè il dolore è un bastardo: ti fa abbassare le difese, si accerta di coglierti di sorpresa, prima di attaccare. E quando attacca lo fa con la gendarmeria più pesante, in un'ondata unica e fitta e travolgente e soffocante, senza pietà, improvviso e sorprendente come solo il nemico più infimo e calcolatore può fare. E tu, inerme su quel letto, perdi tutto d'un colpo la pochissima lucidità che il dormiveglia ti aveva risparmiato. Senti che respirare equivale a piantarsi un coltello tra le costole, che piangere è impensabile perchè lo singhiozzare causa scosse dolorose allo stomaco che ti sembra venga preso a calci, che la sola idea di alzarsi per andare a prendere il cellulare ti può far svenire dal dolore. Perchè non sai cos'altro possa farti male, muovendoti. Se l'immobilità t'inchioda al letto in preda a ondate di fitte che a malapena ti consentono di respirare, cosa ti può accadere se ti alzi? Eppure, vuoi davvero passare la notte lì, da sola, con la compagnia di quel dolore bastardo? E allora ti alzi. Ti alzi e scopri che in piedi stai meglio, che puoi respirare anche se molto, molto, molto lentamente. Che se inali l'aria per uno massimo due secondi, i polmoni non esplodono come li avessero riempiti a dismisura. Sì, in piedi puoi resistere. Quando componi il numero di casa di Davide, e dall'altra parte senti la voce di tua suocera, scopri che anche piangere è diventato sopportabile, ma che ora che hai finalmente la libertà di singhiozzare, non hai la lucidità di parlare. Allora senti la voce del tuo fidanzato, che ha già capito tutto, e che dopo venti secondi sta già volando da te.
Poi inizia un lungo calvario, un ricovero sciagurato, una diagnosi scritta sugli esami del sangue che però, incredibilmente, i medici sembrano non saper leggere. Eppure è scritto a grandi lettere: amilasi pancreatica oltre dieci volte il massimo consentito. Ma no, la paziente è astemia, normopeso, giovane. Allora via, con le risonanze magnetiche. Nessuna malformazione. Poi un susseguirsi di ipotesi. Ma non è importante. Non è quello che conta. Conta la paura, perchè la notte quel dolore bastardo non si calma nemmeno dopo 3 dosi di antidolorofico (prima la pastiglia, poi le gocce, infine l'iniezione), e lo si mette a tacere solo con le flebo. Ecco, quelle sì, funzionano. Però niente cibo, perchè se anche non senti più dolore, i valori vanno alle stelle appena butti giù un chicco di riso. E così, per due settimane.
La pancreatite è stata maestra. Di dolore? No. Di spirito di sacrificio? No. Di pazienza? No. Di fede? no. Di amore? Sì.
Perchè lì, distesa sul letto (sollevato a 90 gradi, perchè poi la pancreatite ha gravi ripercussioni sullo stomaco anche se vuoto), ho sentito Davide che mi diceva: "Vorrei poter essere al posto tuo, per risparmiarti tutto questo". Ecco, gli ho creduto. E gli ho creduto perchè io mai e poi mai avrei voluto fare cambio, mai e poi mai avrei voluto vedere lui al mio posto, a lottare contro un male che avrebbe avuto un nome solo due settimane dopo. Fossi stata al suo posto, avrei provato un dolore ben più profondo, probabilmente. E quindi non so dire se il nostro fosse solo amore o se ci fosse anche una punta di egoismo. Non so dire se la persona innamorata si renda conto di quanto l'anima soffra ben più del corpo. Uno poi lo capisce a posteriori, perchè mentre le vivi, certe vicende non ti consentono di mantenere la lucidità. Ma ancora una volta, quello che conta è un'altra cosa: in quel momento sei convinto che il dolore fisico sia la peggior cosa che possa capitare al partner, e allora non vuoi fargli conoscere quell'esperienza. Forse sei convinto che l'altro ti ami un briciolo di meno, e che quindi il male che deve sopportare la sua anima mentre ti vede soffrire fisicamente sia ben più sopportabile di quello che dovrebbe sopportare il suo corpo. E' un errore, ma lo scopri poi dopo, col tempo, quando sono passati almeno tre anni e anche il fastidioso e debilitante decorso post ricovero è pressochè superato e puoi tornare a mangiare e uscire senza temere di star male da un momento all'altro (magari dopo aver mangiato una patatina fritta). Ecco, dopo, vedi che le ferite dell'animo del partner non sono superate, e che siccome la tua pancreatite non ti abbandonerà mai...non abbandonerà mai nemmeno lui.